Il 23 marzo di 60 anni fa viene pubblicato il debutto su long playing di un ragazzo bianco di 21 anni che ha la voce da nero: si chiama Elvis Aaron Presley. Storia dell’album che ha cambiato la faccia della musica, tra Nashville, New York e il mondo intero.
Tra Elvis Aaron Presley e la Rca Records nasce subito una storia dai grandi numeri: nel novembre del 1955 il manager di Elvis, Andreas Cornelis, detto il “Colonnello Tom Parker”, l’uomo che lo ha aiutato a diventare il padre fondatore del rock&roll, strappa alla casa discografica un contratto da 35mila dollari. È la somma più alta che sia mai stata pagata, fino a quel momento, per un singolo artista. Quell’accordo si trasforma nella scelta vincente per la Rca e nel punto di svolta definitivo per la carriera di Elvis. Di lì a qualche mese, infatti, vedrà la luce il primo album dell’artista di Tupelo, Elvis Presley. Quest’anno, l’8 gennaio, Presley avrebbe compiuto 81 anni, mentre il disco ne festeggia 60 tondi: pubblicato negli Stati Uniti il 23 marzo 1956 (in Italia uscì il 13 marzo), a fine aprile di quell’anno il 33 giri aveva già venduto più di 360mila copie. Stimando poco meno di quattro dollari per copia, si tratta quindi del primo album della Rca ad aver incassato oltre un milione di dollari a un solo mese dalla pubblicazione. Raggiunta la prima posizione nella classifica Billboard dei migliori lp, Elvis Presley è poi diventato il primo album in assoluto ad aver venduto più di un milione di copie. Quel 1956 stava cambiando per sempre la vita del ragazzo bianco che cantava come un nero: con l’arrivo del 1957, Elvis aveva collezionato undici apparizioni televisive e recitato nel suo primo film, Love Me Tender.
Fin qui i numeri. Ma che Elvis Presley rappresentasse qualcosa con cui la Rca non si era mai misurata, i suoi vertici lo capirono dalla prima sessione di registrazione, nel gennaio del ’56, a Nashville. Scotty Moore e Bill Black, la chitarra elettrica e il contrabbasso che accompagnavano Elvis dai tempi dei Sun Studios, erano nervosi mentre si trovavano in sala di registrazione; quell’atmosfera così professionale li intimidiva. Non era così per Elvis: “Con lui lavorare era semplice – racconta D. J. Fontana, il suo batterista – non appena vedeva che qualcuno si lasciava prendere dall’emozione, suggeriva di tornarsene a casa. ‘Lo facciamo un altro giorno’, diceva. Sapeva bene quello che voleva e quello che voleva sentire”. E infatti, al primo accenno di I Got a Woman di Ray Charles, Chet Atkins, il musicista della Rca che aveva organizzato la sessione a Nashville, conosciuto per la sua imperturbabilità, non resistette dal chiamare sua moglie: “Devi venire subito in studio, quello che sta succedendo qui è troppo eccitante”.
Anche Heartbreak Hotel viene registrata in quei giorni, pensata come il primo singolo del disco. Ma, di ritorno a New York, il brano non soddisfa i discografici. E, sebbene poi intraprenda un percorso decisamente fortunato, dal momento della sua pubblicazione fatica non poco per affermarsi (il tempo, si può dire, per Elvis di fare le sue prime apparizioni televisive nazionali e diventare “the pelvis”). Quindi, deciso che Heartbreak Hotel non avrebbe fatto parte dell’lp, la Rca organizza una seconda sessione di registrazione, a New York questa volta. È il momento per Elvis delle cover di Blue Suede Shoes di Carl Perkins e di Tutti Frutti di Little Richard. Per questa seconda fase solo il pianista Shorty Long si aggiunge ai compagni di sempre (Moore, Black e Fontana). È il rock&roll. Sette brani scelti tra le sessioni di Nashville e quella di New York più cinque canzoni registrate anni prima con la Sun ma mai pubblicate. Quello è Elvis Presley. “Stava esplodendo – ricorda Wanda Jackson, la “regina del rockabilly” che in numerose occasioni ha accompagnato Elvis sul palco – “era nuovo, giovane, pieno di energia. Stavamo assistendo alla nascita di una nuova era, non c’erano termini di paragone. Nessuno aveva mai visto niente di simile”.
Tutto di quell’album è diventato leggenda. Anche la copertina, la famosa foto in cui Elvis canta a squarciagola mostrando le tonsille, scattata da William V. “Red” Robertson durante uno show a Tampa. Quell’immagine, datata 1955, è diventata un’icona. Così tanto da non essere solo usata sui giornali e le locandine per pubblicizzare gli show del “Re”, ma finire anche su dischi altrui. Tra i più famosi quello dei Clash: la band di Joe Strummer ha reso omaggio a Elvis rivisitando quell’immagine sulla copertina del loro lavoro più celebre, London Calling. Così alla foto in bianco e nero di Paul Simonon che distrugge il basso sul palco hanno accompagnato la scritta in rosa e verde.
Per i sessant’anni di Elvis Presley, la prossima primavera, è stata annunciata la pubblicazione dell’opera omnia di Presley: un maxi-cofanetto, Elvis Presley – The Album Collection, contenente i 57 album pubblicati dal 1956 al 1977 – dai primi lavori ai Sun Studios alle 17 colonne sonore – registrazioni dal vivo, inediti e rarità (queste distribuite in tre collezioni, una per ogni decennio, anni Cinquanta, Sessanta e Settanta). Copertine rigorosamente originali. E se non vi sembra abbastanza, aggiungete pure un libro di trecento pagine, curato dallo storico John Jackson.
Lasciando da parte tutto quello che è stato detto e scritto sulla sua morte, preferiamo di gran lunga pensarla come Forrest Gump. Ricordando la sera in cui sua mamma lo trascina via dalla tv, dove uno scatenato Elvis balla e canta Hound Dog perché “non è roba da bambini”, Forrest dice: “Qualche anno più tardi, quel bel giovanotto che chiamavano ‘The King’ aveva forse cantato troppe canzoni e gli venne un infarto o qualcosa del genere. Sì, è proprio dura essere ‘The King’”.
La Repubblica 23 03 2016